96 anni fa la marcia su Roma


Il 28 Ottobre 1922 migliaia di uomini spinti da diversi motivi ed ideali (si diversi ideali perchè la bravura di Mussolini fu quella di dar voce a chiunque liberali, cattolici, socialisti, comunisti anche), inondarono le vie della capitale dando vita al tentativo più riuscito di liberare un popolo dalle catene del capitalismo massonico/giudaico/anglosassone.
La del fascismo si arresta solitamente al momento in cui gli angloamericani con lo sbarco in Sicilia il 10 luglio 1943, pongono piede in Italia. Ciò che seguirà dal 25 luglio 1943, con la destituzione di Mussolini, la sua prigionia e la sua presidenza della Repubblica di Salò, durata fino al 25 aprile, non sarà che la conseguenza della suprema sconfitta del regime: la guerra persa.
Il fascismo crollò sotto il peso di una sconfitta militare subita in una guerra che se fu preparata con imprevidenza e leggerezza (diciamo più per il numero di traditori nelle alte sfere), fu combattuta con coraggio e slancio contro la poderosa coalizione anglo-russa-americana.
Ogni polemica sulla guerra italiana 1940-1945 e sulle possibilità di combatterla o di restarne fuori, collocata nell’ottica della Storia e non della cronaca politica, appare ormai sterile e priva di senso. Le stesse attuali incalzanti vicende, su qualunque scacchiere internazionale, provano che quando una classe, un popolo, tenta di rompere, equilibri sociali, economici, internazionali ormai cristallizzati, lo scontro difficilmente è evitabile. Fu così del fascismo, che tentò di modificare gli equilibri di potere all’interno della Nazione e all’esterno, definiti dal bieco e punitivo Trattato di Versailles. Ma fu sconfitto. Tuttavia fu sconfitto non con la forza delle idee ma con la forza delle armi, così del grandioso, burocratico, totalitario edificio eretto in 20 anni di regime, restò in piedi ben poco perché tutto si dissolse con incredibile rapidità 24 ore dopo la deposizione e cattura di Mussolini in una Italia ormai ampiamente occupata dalle forze americane.
Ma dalle ceneri del regime, il fascismo seppe ancora trarre un elemento valido, una proposta da lasciare alla riflessione dell’Italia del dopo: la proposta di rinnovamento sociale contenuta nella idea che Mussolini aveva di Stato e di Stato corporativo. Uno Stato al cui vertice fossero inseriti i lavoratori, ma uno Stato che nel contempo offrisse alle categorie produttrici un punto di incontro nell’interesse superiore della nazione.
È stato affermato da parte marxista che il fascismo fu la reazione armata del capitale, fu l’espressione violenta della volontà di oppressione delle classi dominanti. Ma quando il fenomeno fascista fu così spiegato, il comunismo non aveva ancora vissuto la crisi fallimentare che generò il suo dissolvimento per la sua intrinseca, feroce nullità, ossia a differenza del Fascismo, non sotto la spinta di una sconfitta militare. In modo speculare quando gli Alleati sbarcarono in Italia con i sorrisi dei liberatori, portando libertà e Coca Cola a un paese spossato dai sacrifici della guerra; quando promisero pace e prosperità a chi aveva combattuto contro i colossi detentori delle materie prime e delle ricchezze mondiali, i sistemi liberal-capitalistici non avevano ancora conosciuto la crisi che li travaglia. Oggi, ad anni di distanza, tutti i discorsi sono nuovamente aperti. I problemi delle moderne società industrializzate di massa, i problemi della alimentazione, dell’approvvigionamento e della ridistribuzione della ricchezza, fra i popoli e all’interno dei singoli gruppi nazionali, inducono molti a riflettere su esperienze recenti, rifiutate fino ad oggi perché proprie della parte perdente nel 1945.
Il fascismo, configurato fino a non molto tempo fa come l’oppressore politico ed economico armato di manganello, viene sempre di più riconsiderato, da critici e storici, come soluzione realistica e possibile nel conflitto tra capitale e lavoro, che si espresse autonomamente fra l’uno e l’altro con tutti i limiti propri di una esperienza storica d’avanguardia ma limitata nel tempo e combattuta ferocemente da potenze colossali.
Andato al potere con la fiducia della piccola borghesia, del proletariato nazionalista e l’appoggio degli industriali e degli agrari, il fascismo, pur non alterando clamorosamente gli equilibri che gli consentivano il potere, dimostrò abilità nel non essere assolutamente lo strumento docile di chi ne aveva favorito l’affermarsi. E, pur nel generale favore, destò molte apprensioni sia negli ambienti che lo avevano affiancato nella marcia verso il potere sia nei quadri dirigenti marxisti, allora esuli. Nel fascismo costoro si vedevano sottrarre le armi della propaganda politica, perché era il fascismo che si avviava a realizzare gradatamente la fallimentare grande speranza delle rivoluzioni marxiste: l’inserimento delle masse popolari nelle strutture di uno Stato, uno Stato che, al vertice come alla base, di quelle masse ne fosse l’espressione diretta.
Perciò l’esperienza fascista si offre alla riflessione degli Italiani e degli Europei di oggi, non tanto per le paludi prosciugate, per gli imperiali destini e le inquadrate legioni, ma per l’immane e incompiuto sforzo di tentare una sintesi tra la tesi del capitalismo e l’antitesi del marxismo, o, meglio, per aver individuato i limiti dei due sistemi, che li avrebbero portati a confluire e ad appoggiarsi fatalmente a vicenda, quando l’evolversi della situazione storica, ne avesse minacciato la sopravvivenza.
Il fascismo tentò la terza via. Una via irrealizzata con la macchinosa e burocratica costruzione degli anni anteguerra, soffocata dallo stesso regime totalitario, interrotta sotto i bombardamenti a tappeto e, per quanto riguarda la Repubblica di Salò, sotterrata dal crepitare dei mitra di Dongo e di Giulino di Mezzegra. Una Repubblica cui va tuttavia riconosciuto il merito di aver elaborato un testamento politico e sociale di immenso valore, se si tien conto delle condizioni tragiche in cui fu costretta a vivere, nella morsa terribile della oppressione tedesca e della avanzata anglo-americana. Nei seicento giorni in cui essa ebbe vita, infatti, la guerra civile scatenata e guidata dai comunisti, e proseguita da costoro con i massacri perpetrati ben oltre il 25 aprile 1945, non aveva assolutamente come obiettivo un nuovo e superiore contenuto etico dello Stato col quale dare consistenza alla forma democratico-parlamentare che veniva imposta dalle potenze vincitrici. Per quanto apparentemente schierati dalla parte delle democrazie capitaliste dietro le linee del fronte, i comunisti combattevano per le democrazie popolari e per la repubblica dei soviet; combattevano non una guerra di liberazione, ma una guerra di classe in nome di una utopia insidiata da un errore filosofico di portata catastrofica: la dittatura del proletariato, ormai definitivamente smentito dalla Storia e definitivamente sepolto sotto le macerie di milioni di vittime della più tragica utopia che la umanità abbia sperimentato.
L’antifascismo non comunista dal canto suo, pur avendo ottenuto in gestione dai vincitori la struttura della democrazia parlamentare non fece altro che confermare le sue incapacità, già rivelate con la fuga aventiniana e il tradimento delle istituzioni democratiche nel 1924, di concepire un pensiero politico unitario in grado di confrontarsi con quello di Mussolini e di superarlo nella costruzione sostanziale di uno Stato etico moderno, ma non seppe fare altro che trincerarsi dietro la demonizzazione del fascismo, imposta con la menzogna storica della Repubblica nata dalla Resistenza.
Il risultato è stato che oltre 50 dopo la caduta di Mussolini, gli italiani, nel degrado non più tollerabile della società civile e delle istituzioni, sentono la necessità di aprire attraverso il processo alla Resistenza, quel processo al fascismo, che è sempre stato negato per impedire alla verità di emergere e saldare una frattura che nessun popolo può permettersi senza compromettere irrimediabilmente il proprio avvenire.
Il fascismo descritto e visto come oppressore politico ed economico, armato non di armi ma di manganello, di olio di ricino e non di camere a gas viene lentamente, ma progressivamente, riconsiderato dagli storici e dai critici, come l’unica sintesi nell’antitesi tra capitale e lavoro, potenzialmente capace di dare alle Nazioni industrializzate quella democrazia sostanziale che né il collettivismo comunista, né il liberalismo capitalista sono stati in grado di assicurare alle moderne società di massa.