La dignità perduta


Non molto tempo fa bastava che un principe straniero ci accusasse di fellonia perché un principe italiano lo sfidasse a duello, per salvaguardare la nostra dignità. Oggi ci accusano di essere ladri e mafiosi ma non c’è deputato che sguaini la spada: i duelli sono passati di moda, il giudizio di Dio è un rischio da non correre e di paladini senza macchia se ne vedono pochi.
Secondo Sallustio, il senato romano già ai tempi della guerra giugurtina era in gran parte corruttibile. Se ne deduce che l’onestà, nel mondo politico, è sempre stata merce rara. Ma c’è corruttibilità e corruttibilità. In democrazia, se si toglie ai cittadini il diritto di controllare le finanze pubbliche che cosa rimane? Quando un popolo si rassegna ad essere governato da ladri, perde non solo la dignità ma il diritto a rivendicarla. L’Italia ha perso la dignità l’8 settembre 1943. Da allora ha fatto molto per riacquistarla, ma ad impedirle un risultato apprezzabile è stata la corruzione. La guerra non ci aveva portato solo la sconfitta militare, ma anche il borsanerismo , gli accaparramenti, la cosiddetta arte di arrangiarsi, trasformatasi in seguito nell’arte di arrampicarsi, di far carriera, di speculare sulle miserie altrui. La guerra si era portata via gli uomini migliori, sull’uno e sull’altro fronte. La nuovissima classe, quella dei sopravvissuti, era in gran parte moralmente fragile e ne avrebbe presto dato la prova. Negli anni successivi al conflitto i grandi casi di corruzione di Stato si verificavano soprattutto nei Paesi socialisti e nel Terzo Mondo. Poi la lotta tra i partiti e il bisogno di denaro che essa comportava portò l’Italia alla ribalta. Nessuno fece tesoro di quanto era accaduto nei Paesi dell’Est, neppure le Chiese perché, come ha scritto Revel, “innumerevoli preti e pastori proferirono anatemi contro la corruzione del capitalismo, risparmiando stranamente gli Stati criminali, affamatori e schiavisti del pianeta perché tali Stati, avendo soppresso l’economia di mercato, non potevano più peccare”. Forse per questo, in Italia, ha fatto tanto rumore il libro di Pino Nicotri, uscito ai tempi di Tangentopoli, con le voci dei preti, registrate nei confessionali, che assolvevano senta esitazione i furti del partito cattolico. Del resto, ancora nel 1993, il capogruppo della Dc, Gerardo Bianco, sosteneva pubblicamente che “rubare per il partito, sulla spinta ideologica, può essere un’operazione nobile”. Il che gli consentiva di imparentare la filosofia cattolica con quella comunista e al tempo stesso di fare pubblica abiura alla dignità. Le nostre organizzazioni politiche sono diventate, negli ultimi cinquant’anni, antitetiche alla dignità degli italiani. I partiti, fin dal dopoguerra, si trasformarono in qualcosa di non previsto dalla Costituzione: società d’affari, macchine economiche per l’occupazione dei gangli vitali del Paese. Nella lotta concorrenziale che li contrapponeva, spendevano cifre astronomiche che non potevano essere coperte dalle dignitose questue tra affiliati, ipotizzate all’inizio. Già alla fine degli Anni Cinquanta, Tangentopoli aveva preso a crescere indisturbata, come dimostrano i libri di Mario Tedeschi “Dizionario del malcostume” e “Roma democristiana”. Ma il J’accuse, provenendo da destra, lasciò il tempo che aveva trovato. Dal canto suo il Pci, che contendeva alla Dc il primato dei finanziamenti illeciti, pur ammantandosi della fama di “partito degli onesti”, incassava sovvenzioni dai sovietici, che allora al tempo della guerra fredda erano i nostri avversari, senza porsi problemi né di fedeltà alla patria né di dignità. La simbiosi dell’apparato politico con la mafia avvenne gradualmente, a mano a mano che diventava sistematico il controllo delle elezioni attraverso il voto di scambio. Per il voto si offriva di tutto: posti di lavoro nella burocrazia, false invalidità, pensioni, permessi di edificazione, contratti e appalti per costruzioni faraoniche spesso neppure realizzate. Avendo posto i loro uomini nella grande e nella piccola burocrazia i partiti imposero il pizzo, come la mafia, a volte in società con la mafia, i cui capi erano spesso i controllori più sicuri su interi pacchetti di voto. Fu allora che la partitocrazia prese il posto della democrazia e la dignità dei cittadini divenne un bene irrecuperabile. Gli uffici statistici cominciarono a pubblicare dati economici dai quali si rilevava che il Meridione senza gli introiti della droga sarebbe finito in miseria, che le Ferrovie, l’Iri, l’Eni e le altre imprese di Stato se amministrate onestamente avrebbero ridotto i partiti a più modeste dimensioni. Fu allora che la spartizione dei ministeri, dei segretariati, delle ambasciate, dei tribunali, dei provveditorati, delle case editrici, degli enti pubblici, delle partecipazioni private, delle banche si propagò come un’infezione, fino ad essere subissata dalla lottizzazione totale, dal generale di Corpo d’armata al netturbino. Gli interessi dei partiti, a quel punto, erano già talmente superiori a quelli del Paese che non c’era ombra di dignità che potesse essere salvaguardata, mentre la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo, trasformata in Tangentopoli internazionale, ci assicurava una fama da mafiosi in ogni angolo del globo. All’estero i partiti italiani, accolti come sostituti del Parlamento e presto considerati società a delinquere, furono disprezzati persino da quei capipopolo terzomondisti che consideravamo come controparte malleabile per il malaffare. Non c’è scandalo fragoroso nei Paesi amici dell’Italia nel quale la regia non sia stata dei nostri partiti: dai telefoni in Argentina agli elicotteri in Belgio, dagli armamenti ad Atlanta all’edilizia in Somalia, dall’agricoltura in Mozambico al gas in Algeria, e via elencando. Nei traffici internazionali la bustarella è d’uso, ma i partiti italiani non si sono mai accontentati: hanno imposto il pizzo permanente, la taglia, il ristorno. Dagli Appennini alle Ande, là dove un tempo brillavano gli istituti della Dante Alighieri, simbolo della cultura italiana, oggi nereggiano i ruderi della nostra cooperazione col trucco, monumenti perenni alla nostra dignità perduta. Sanno gli italiani che ogniqualvolta votano per certi uomini e per certi partiti (quasi tutti, ahimè) abiurano alla propria dignità di cittadini e controfirmano, al buio, attività gangsteristiche di questa portata? Probabilmente non se ne rendono conto fino in fondo. A mantenerli in una specie di limbo ideologico provvedono i mezzi di informazione, tutti aggregati al sistema. L’elettorato è diventato il popolo televisivo e si è lasciato convincere che la democrazia non sarebbe praticabile se non autorizzando tacitamente il furto. E gli effetti della narcotizzazione televisiva sono così potenti che abbiamo assistito alla conversione totale della sinistra a quei metodi pubblicitari che aveva osteggiato per anni e che aveva rinfacciato a Berlusconi. Oggi è difficile che l’opinione pubblica si renda conto che la grande fonte della corruzione non è la proprietà privata ma quella pubblica e che i partiti, economicamente così organizzati, non sono, come dicono i governanti, la garanzia dello Stato democratico, ma la sua ameba. Finché non ridurremo ai partiti italiani questi standard, negando loro il denaro pubblico e controllando i loro bilanci essi continueranno ad essere macchine malavitose di un regime. Sempre più raramente i cittadini levano la loro protesta contro la mancanza di dignità di chi li rappresenta. Le scenografie faraoniche dei congressi di partito, l’ostentazione di lusso da parte dei politici e dei sindacalisti, l’esibizione di un arricchimento fulmineo ed esteso ai parenti, le barche, le ville, l’uso di trasporti militari per ragioni private, i privilegi economici ed assicurativi, le case ad affitto irrisorio, la vita notturna da macrò, l’atteggiamento prevaricatore da signorotti medioevali imprimono a tutta la classe politica quei tratti da ciarlatano, da parvenu, che offendono la dignità dei cittadini, soprattutto dei più tartassati e dei meno abbienti. Riconquistare la dignità significa, da parte dei cittadini, sbarazzarsi di questo tipo di uomini e di organizzazioni. Darsi altre istituzioni, altri partiti, meno forti finanziariamente e meno deboli moralmente. Finirla con una classe di politici scelti dall’alto come proconsoli e dalle mafie economiche come esattori. Non c’è democrazia là dove non c’è più dignità, cioè senso del dovere e dell’onore, rispetto per le persone, per il popolo, per la nazione.
“Italia, patria mia, nobile e cara terra, dove mio padre e mia madre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno; bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli, unita e libera da pochi anni; che spargesti tanta luce di intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi morirono sui campi e tanti eroi sui patiboli…Ti amo, patria sacra! E ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i tuoi grandi vivi e i tuoi grandi morti, che sarò un cittadino operoso e onesto, inteso costantemente a nobilitarmi per rendermi degno di te…Giuro che ti servirò come mi sarà concesso, con l’ingegno, col braccio e col cuore e che se verrà un giorno in cui dovrò dare per te il mio sangue e la mia vita, morrò gridando al cielo il tuo nome”. EDMONDO DE AMICIS