Dal paradiso all’inferno


La salita al potere di Adolf Hitler (Braunau am Inn, 20 aprile 1889 – Berlino, 30 aprile 1945), cambiò la geografia dell’Europa, ancor più rapidamente di quanto non avesse fatto Napoleone Bonaparte, anche se per un periodo di tempo più breve.
Le alte cariche della Reichswehr (lett. Difesa del Reich, nome dato alle Forze Armate tedesche dal 1919 al 1935) furono tacciate dalla storia e, soprattutto dall’opinione pubblica, di complicità in tale ascesa, ma le prove a sostegno di questa accusa sono notevolmente scarse. Ovviamente esse furono destinatarie dell’espansione delle varie componenti militari, seguita all’avvento di Hitler. Alcuni generali ammisero che, da principio, il regime fu da loro sostanzialmente accettato, perchè liberava la Germania e l’esercito dalle restrizioni del Trattato di Versailles (1919). Era un atteggiamento naturale, per dei soldati interamente dediti al proprio lavoro, benchè molti di loro siano poi vissuti abbastanza per pentirsene amaramente. Altri, forse più preveggenti, si allontanarono fin da subito, perchè intuirono che i soldati dilettanti che capitanavano le Sturmabteilung (lett. Squadre d’Assalto, primo gruppo paramilitare nazista), non si sarebbero accontentati di vedere le vecchie gerarchie rimanere una riserva tradizionalista della Reichswehr.
E’ interessante chiedersi, a questo punto, quali conclusioni possano scaturire da un esame delle attività dei comandi tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale e del corso delle operazioni che hanno segnato, per quella nazione, gli eventi della storia.
Un completo fallimento sul piano della politica di guerra, accompagnato da una serie notevole di risultati su quello strategico e tattico.
La spiegazione è di duplice natura. I generali più anziani, formatisi nel sistema dello Stato Maggiore Generale, avevano evidenziato un altissimo livello di efficienza professionale, priva tuttavia di genialità, salvo nel senso di una capacità illimitata di fare le cose con la massima cura. La loro immensa abilità aveva comunque delle limitazioni intrinseche. Essi tendevano a condurre la guerra più come un gioco di scacchi che come un’arte, contrariamente a quello che facevano i vecchi maestri della guerra. Erano inclini a trattare con cipiglio i colleghi che avevano idee nuove ed il loro atteggiamento era ancora più sprezzante, quando tali convinzioni venivano da dilettanti. Per loro il Führer era un dilettante, il Leader Supremo, ma pur sempre un dilettante. E c’è da aggiungere che la maggior parte di questi comandanti aveva una comprensione limitata di qualsiasi elemento che esulasse dal campo militare.
Hitler fu più pronto di loro a scoprire il valore delle nuove idee, delle nuove armi e dei nuovi ingegni. Egli avvertì la potenzialità delle forze corazzate mobili, prima dello Stato Maggiore ed il sostegno incondizionato che offrì a Heinz Guderian, eroe dell’”Operazione Barbarossa” e Comandante della 2^ Panzer Division, si rivelò il fattore più decisivo nelle vittorie iniziali. Fu lo sviluppo dei mezzi corazzati che permise di compiere una serie vertiginosa di conquiste. Senza i carri armati, i sogni del Führer non si sarebbero mai avverati. Più ancora della Luftwaffe (aviazione militare, lett. Arma dell’Aria) e molto più dei Quisling (sinonimo di collaborazionisti), essi furono il suo strumento decisivo. Aveva avuto la preveggenza ed il coraggio di sostenere lo sviluppo della nuova arma, anche se nell’ultima fase della guerra, pagò il fio di non averla sostenuta ancora di più.
Hitler aveva fiuto, che è caratteristica del “genio”, sebbene tale fiuto fosse accompagnato da una propensione disarmante a commettere errori elementari, sia di calcolo che di azione.
I giovani Ufficiali che scovò e che spinse in alto erano, molto spesso, simili a lui. Tra questi, Erwin Johannes Rommel, prediletto tra i comandanti venuti dalla gavetta, l’eroe di Caporetto nel 1917 ed il grande stratega della guerra magrebina, che gli valse il titolo di Volpe del Deserto, al comando dell’Afrikakorps, unità a livello Corpo d’Armata, da lui fondata nel 1941.
Uomini come questi, avevano l’istinto della mossa imprevista, il senso della particolare importanza che aveva la sorpresa, per paralizzare gli avversari. Essi reintrodussero nella guerra, in nuove forme, le classiche astuzie, i classici stratagemmi che la cultura bellica ortodossa, dell’ultimo mezzo secolo, aveva dichiarato antiquati e dall’applicazione impossibile. Col successo avuto nel dimostrare la fallacia dell’ortodossia, Hitler guadagnò, sulla gerarchia militare, un vantaggio che fu più lesto a sfruttare che non a considerare.
Talvolta l’intuito dei dilettanti fu giustificato dai fatti, talvolta fu invece giustificato il calcolo matematico dei professionisti. E quest’ultimo, si dimostrò sempre più valido con il passare del tempo. Ma la gelosia tra dilettanti e professionisti e il modo come essa aggravò l’inevitabile urto di opinioni, fu più fatale alla Germania degli errori commessi dall’una e dall’altra parte. La responsabilità di ciò spettò, come è sempre stato e sempre sarà, all’ordinamento costituito. Può darsi che l’esito dei fatti fosse inevitabile, perchè la religione della guerra non è di quelle che insegnano, ai loro sacerdoti, la saggezza di conciliare opinioni diametralmente opposte.
Data la politica di Hitler ed il suo temperamento, sarebbe stato molto difficile frenarlo, in qualsiasi circostanza. L’atteggiamento dei suoi generali e la frequenza con cui il suo intimo si dimostrò più aderente, del loro, alla realtà, fecero sì che egli diventasse incontrollabile. Ma né l’una né l’altra parte ebbe mai coscienza delle proprie limitazioni.
I generali tedeschi della Seconda Guerra Mondiale furono il miglior prodotto professionale, in assoluto, rispetto ad ogni altro paese belligerante. Avrebbero potuto essere anche migliori, se la loro visione fosse stata più larga e la loro comprensione più profonda. Ma se fossero diventati filosofi, avrebbero cessato di essere soldati.