La libertà di essere schiavi


Che cos’è la libertà? Questa parola rappresenta per ogni uomo un traguardo – più o meno raggiungibile – per il suo modo di pensare e di confrontarsi con tutto ciò che lo circonda, per il suo benessere e, in fondo, per la sua intera esistenza.
Ma la libertà è anche un concetto spesso abusato e sbandierato a sproposito da chiunque voglia ergersi portavoce di un’intera categoria, allo scopo di promuovere se stesso a Lord Protettore di idee o di interessi più o meno leciti.
In periodo elettorale sembra che ciascun partito, direi quasi ciascun candidato, si reputi l’unico baluardo contro coloro che ci vogliono togliere la libertà per sostituirla con uno status in cui il concetto stesso di libertà non sia più univocamente definito.
Ecco allora i vari populisti (che a rigor di termini sarebbero quelli che ascoltano e assecondano le necessità del popolo) tacciati – in parte a ragione – di demagogia e di cavalcare tigri pericolose per la pace e la libertà sociale.
Ecco i giustizialisti, capaci solo di punire i populisti e i loro adepti e d’altro canto di guardare con occhio benevolo coloro i quali usano la violenza contro tutti i populismi pur di garantire la libertà così come loro la intendono.
Infine abbiamo i progressisti, che non sanno bene nemmeno loro quali progressi intendano attuare, ma che comunque fanno tutto in nome della libertà, e chi non si schiera con loro è un fascista e vuole uccidere la libertà.
Insomma, ciascuno parla di libertà a un pubblico che neanche sa bene cosa sia. Il che ci riporta alla domanda iniziale: cos’è la libertà?
Il Devoto-Oli le definisce come: “stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico”.
Sì, va bene, ma chi deve garantire questo diritto? La risposta più semplice è: lo Stato.
Già, ma lo Stato – che dovremmo essere noi – è gestito da uno o più partiti i quali, come abbiamo visto, hanno idee differenti e spesso affatto peregrine su cosa sia la libertà. E allora saranno in grado di adempiere a questo loro dovere? E in che modo? Difenderanno proprio quel concetto di libertà come lo intendiamo noi, o altri che a loro paiono più corretti, ovviamente in base ai propri fini?
Allora, dirà qualcuno, sarebbe meglio che la libertà ci venga garantita da istituzioni indipendenti dallo Stato politico, le quali abbiamo proprio questo fine ultimo come programma di azione.
Vi devo dare una brutta notizia: istituzioni così non esistono, almeno non su questo pianeta.
E non potrebbe essere altrimenti perché anch’esse ricadrebbero nella trappola del senso da dare alla parola libertà.
Infine ci sarà quello, più furbo di tutti, che pretenderà di garantirsi da solo, in piena autonomia, la propria libertà, e magari vorrà anche prendersi cura di quella dei suoi cari, del condominio in cui abita e dell’intera città, perché “la nostra città non è come le altre: qui certe cose non accadono”, dimenticandosi il caro e vecchio adagio secondo cui la mia libertà finisce dove inizia la tua.
Sconsolati, iniziamo allora a pensare che la libertà sia solo un fumoso concetto, dai confini estremamente labili e facilmente sovrapponibili, che tiriamo in ballo quando ci mancano altri argomenti per far valere le nostre ragioni.
Ma poi, quale libertà ci preme veramente: ”libertà di” o ”libertà da”? Ciascuno avrà la propria risposta, comunque degna di rispetto, ma certamente parziale rispetto al senso più esteso del concetto stesso di libertà, e ogni essere senziente, includendo anche le balene e i cirripedi, è libero (appunto!) di interpretare a modo suo questa idea.
Se mettete un uccellino in gabbia il suo istinto sarà certamente quello di volare via appena possibile (lo sapevate che il loro canto è incrementato dallo stato di cattività?): questa è “libertà da”: nella fattispecie libertà dalla costrizione in una gabbia.
Se avete mangiato fagioli e siete alla prima della Scala sarete costretti a reprimere un desiderio immenso di liberarvi dei gas intestinali: “libertà di”.
Certo l’uomo aspira a entrambe, ma a seconda del momento e della situazione sentirà più impellente il bisogno di una delle forme di libertà, sottovalutando al contempo l’importanza di tutte le altre e quanto esse siano ugualmente importanti per i suoi simili.
Mi spiego con un esempio: se vi trovate incatenati nelle segrete della rocca di San Leo, dove vi aspetta la stessa fine che fece il conte di Cagliostro e a causa della fame arretrata vi siete appena scofanati la sbobba settimanale di fave e cipolle che vi ha provocato uno sciame sismico duodenale ma non riuscite a liberarvi a causa di un blocco a livello del colon discendente, messi di fronte alla scelta tra un enteroclisma e la fuga attraverso la foresta di Novafeltria sono pronto a scommettere una Lamborghini contro il mio stipendio di collaboratore di Weekly Magazine che ve ne stracatafottereste della fuga e vedreste giungere la cannula come la spada di San Michele!
Insomma, la libertà intesa come diritto è una cosa troppo grande per l’essere umano, che in diecimila anni di storia documentata non ha ancora imparato a farne buon uso.
E allora? Allora non resta che la tirannia, direte voi. La democrazia ha fallito, quindi torniamo ad un regime autoritario che grazie alla forza e alla paura ci garantisca quel minimo di libertà che, in fondo, ci potrebbe bastare.
Ma la democrazia e la liberà sono concetti tra loro disgiunti e spesso non sovrapponibili.
È addirittura possibile teorizzare modelli misti di dittatura democratica di cui parlerò più diffusamente in un prossimo articolo.
Ciò che qui invece mi preme spiegare è il fatto che non sempre la libertà – intesa nel senso più ampio – ci convenga poi così tanto: molto di frequente ci gettiamo anima e corpo a difesa o contro persone o fatti che sembrano ledere tale concetto di libertà, mentre non ci rendiamo conto che ben altri sono i mali che la affliggono. Beninteso: dicendo che la libertà non conviene non intendo che non sia conveniente in senso assoluto, ma che determinate situazioni potrebbero spingerci a scegliere una condizione di non-libertà che offra tangibili vantaggi.
Anche qui facciamo qualche esempio.
Nel recente film Blade Runner 2049 il costruttore di replicanti pronuncia una frase interessante: “Ogni progresso della civiltà è nato sulle spalle degli schiavi”. Può sembrare solo una battuta da film, ma se ci guardassimo alle spalle per scrutare il passato del genere umano scopriremmo che non c’è nulla di falso in tale affermazione.
La schiavitù è sempre stata utilizzata dai popoli per migliorare il benessere sociale (anche degli schiavi!) e per costruire opere altrimenti difficilmente realizzabili.
Nel 67 d.C. Nerone inviò 6000 schiavi per iniziare i lavori di scavo del canale di Corinto.
Il suo successore Galba fermò provvisoriamente i lavori, convinto che non fosse un’opera prioritaria. La burocrazia era già una piaga allora, tanto che il canale fu poi realizzato solo intorno al 1870, circa cinquant’anni dopo l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti.
Le piramidi maya e azteche, la grande muraglia cinese, le strade costruite dai romani, la realizzazione sempre da parte loro dell’istmo che collega Sant’Antioco alla Sardegna sono solo alcuni esempi di opere dell’ingegno umano che senza la schiavitù non avrebbero mai visto la luce.
In un interessante articolo sull’edizione on-line de Il Sole 24 Ore, Enrico Verga affronta questo tema da un punto di vista inusuale ma molto illuminante.
Sintetizzando il suo pensiero, Verga si chiede se non sarebbe opportuno rivalutare la schiavitù e considerare l’opportunità economica di reintrodurre tale soluzione contrattuale nell’economia moderna.
Infatti esistono vari fattori che stanno radicalmente mutando il rapporto uomo-lavoro: pressione sociale, una politica aziendale strutturata nell’esternalizzare tutto il possibile e una rapida digitalizzazione nel mondo industriale fanno sì che i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti non siano più quelli di pochi anni fa.
Giuridicamente qualsiasi rapporto di lavoro esuli dallo schema del contratto di impiego in un’azienda capitalistica a fronte di un salario, o magari dalla fornitura “free lance” di servizi puntuali da un individuo può essere considerato in buona sostanza schiavitù.
Verga spiega che sebbene il concetto di schiavitù sia considerato dalla maggior parte degli individui come negativo, “…si può notare come una larga parte della storia dell’umanità abbia visto regni, imperi e persino nazioni democratiche (con un sistema di elezioni popolari come gli stati americani) utilizzare gli schiavi per differenti mansioni e ruoli. L’abolizione della schiavitù è un fenomeno piuttosto recente. Poco più di due secoli. Tuttavia se sulla carta la schiavitù nella sua accezione più brutale è stata bandita, così non si può dire nei fatti. Con nomi differenti esiste e prolifera ancora in una buona parte del mondo.”
Spiega Stefano Sutti, partner dello studio legale Sutti di Milano: “…si ritiene sempre più comunemente che la retribuzione debba essere determinata dal mercato. Nulla impedisce d’altronde che il mercato, grazie anche (localmente) ad un cartello spontaneo di datori di lavoro e (globalmente) alla concorrenza internazionale e al cosiddetto dumping sociale da parte di paesi dove comunque il costo della vita è molto inferiore, possa assestarsi al di sotto del livello del livello di sussistenza per il lavoratore interessato e le persone che da lui dipendano. …Legislazione sociale e contrattazione collettiva restano sostanzialmente strumenti spuntati rispetto alla globalizzazione.
Ora, in una realtà di mercato perfetto questo non pone particolari problemi al datore di lavoro che sia in grado di rimpiazzare prontamente le risorse umane di cui ha bisogno, ma lo disincentiva naturalmente ad investire nella loro sopravvivenza, sviluppo professionale, benessere, fedeltà. Al contrario, non solo nelle economie tradizionali il singolo lavoratore viene considerato un capitale da proteggere; ma viene tuttora considerato alla stessa stregua anche in società fortemente industrializzate come quella giapponese e di altre parti dell’Asia, dove la contrattualizzazione formale del rapporto secondo il modello occidentale ha fatto venir meno solo fino ad un certo punto il vincolo culturale di fedeltà reciproca che si stabilisce ai vari livelli all’interno di una comunità di lavoro stabile e delle unità produttive che lo compongono”.
Con questo panorama legale e contrattuale già si può evincere un potenziale scenario di schiavitù laddove non sia presente un contratto normato e ben strutturato. Di fatto si può suggerire che già oggi, in Italia, le partite IVA siano sottoposte a rischio di schiavitù.
Dice ancora Verga: “Diversi milioni di Italiani ne sono felici (per così dire) possessori. Il leitmotiv è che sono imprenditori di se stessi. Un termine, quello di imprenditore, che già di per sé suscita (o dovrebbe suscitare) il pensiero di un futuro radioso, una sfida dell’individuo alla continua crescita economica e alla perfetta integrazione tra libertà civili ed economiche.
In verità non è certo un segreto che molte partite IVA sono né più né meno finte. Capita che l’azienda, per rendere più “fluida” la sua gestione delle risorse umane, chieda (…) ai suoi dipendenti di licenziarsi. In seguito chiederà loro di aprire una partita IVA e lavorare come consulenti per l’azienda stessa, svolgendo le stesse mansioni.”
Tuttavia in questo virtuoso percorso di emancipazione dell’individuo dall’azienda, vengono cancellati tutti i benefici che un contratto garantiva. Le partite IVA infatti non hanno giorni di vacanza pagati, non hanno malattie pagate, i costi degli strumenti elettronici (cellulare, computer) sono a loro carico. Non vi sono certezze per il futuro, e il costo-ora tende, a volte, a decrescere (rispetto alla precedente posizione di impiegato assunto). Non si dimentichi inoltre che il costo della tassazione sulle spalle del fortunato possessore della partita IVA viene ad aumentare, mentre pesano non poco un eventuale mutuo o affitto, cibo, costi sanitari, vestiario, etc.
E in questo panorama non vanno dimenticati i contratti a zero ore, anche questi a chiamata con ovvi vantaggi per l’azienda e pochissimi per il professionista a contratto.
Perché, quindi, non valutare di re-instaurare l’istituto della schiavitù? A conti fatti alcuni milioni di lavoratori che si credono liberi potrebbero essere interessati ad un ruolo di neo-schiavi che possa migliorare le loro condizioni.
Non stiamo certo ipotizzando la violenza, le frustate o peggio. Ma consideriamo alcune società straniere che già oggi danno una serie di benefici: casa pagata, ticket pranzo, copertura sanitaria, servizio di lavanderia, etc. sono tutti benefit che permettono al padrone (pardon, all’azienda) di tenere vicini a se gli impiegati. E’ di questi giorni la notizia che nella florida Germania è stata approvata la settimana lavorativa di 28 ore: le aziende vanno talmente bene che i sindacati hanno avuto nelle loro mani una potente leva contrattuale e l’hanno sfruttata al meglio (tanto più che gli industriali se lo possono permettere).
Di recente un nuovo percorso di esternalizzazione (spesso descritto come benefit) ha preso piede nelle aziende: si invitano i dipendenti a lavorare da casa propria. Indubbiamente vi sono vantaggi per chi ha una famiglia ma certamente anche per le aziende.
Tuttavia queste esternalizzazioni vengono, di fatto, scaricate sulle economie dei vari Stati (dalle crescenti malattie nervose alle difficoltà finanziarie legate ai pensionamenti) e ci si può domandare se per molti cittadini non sarebbe opportuno diventare schiavi.
Quali sarebbero i vantaggi? Durante l’impero romano lo schiavo aveva diritto a un alloggio, cure mediche, vitto e vestiario. Molti schiavi venivano educati e ricevevano un addestramento specifico. Vi era infatti lo schiavo cocchiere, il cuoco, il contadino, e così via.
Anche oggi i costi della formazione coperti dal padrone sono sicuramente un benefit per il dipendente-schiavo.
“Ovviamente, conclude Verga, lo schiavo dovrà concedere la sua totale disponibilità. Tuttavia non si suggerisce la presenza di catene o collari di proprietà come nell’impero romano. In vero, a ben guardare, le catene sono già oggi disponibili e largamente diffuse. Il cellulare che le aziende generosamente donano ai propri dipendenti sono di fatto catene virtuali. Autorizzano (formalmente o informalmente) l’azienda ad avere accesso al dipendente in qualunque momento, sia con mail messaggi o telefonate. Le catene quindi esistono, e sono sempre presenti nella vita quotidiana.”
Considerando che gli aspetti negativi (sfruttamento, incertezza per il futuro, mancanza di libertà) sono già di fatto presenti in una larga parte della classe lavoratrice,
È quindi lecito chiedersi se non sarebbe un vantaggio per la comunità e lo Stato se le grandi aziende si facessero carico di un contratto di schiavismo.
Tornando poi alle catene di cui sopra, è il caso di rimarcare quanto accaduto recentemente alla multinazionale Amazon, la quale ha brevettato un bracciale ‘intelligente’ in grado di monitorare continuamente le prestazioni dei dipendenti.
Da notare il sorprendente parallelo con il collare di proprietà messo agli schiavi nella Roma repubblicana e imperiale. Ma il braccialetto di Amazon, pur essendo ad oggi solo un progetto, ha sollevato un enorme vespaio a causa di un’informazione parziale e beceramente ignorante e coloro i quali si sono – giustamente – scagliati contro il tanto vituperato braccialetto lo hanno fatto per una ragione sbagliata.
Infatti esso in Italia risulterebbe comunque vietato dalle leggi sulla privacy e sul lavoro: non è consentito controllare i lavoratori per tutta la durata dell’orario di lavoro, inoltre che ci starebbero a fare i preposti e i capireparto se non per ottemperare a questa funzione di controllo?
Pochi hanno capito che il controllo elettronicamente esercitato esiste già in forma ben più massiccia e penetra il tessuto sociale in tutte le sue fibre: tutti noi abbiamo smartphone in grado di tracciare i nostri movimenti in ogni istante e di carpire i nostri gusti e le nostre preferenze, rielaborarle attraverso complicatissimi algoritmi e rischiaffarcele nel piatto sotto forma di proposte commerciali.
Se provate a cercare su internet la ricetta dei saltimbocca alla romana, tempo tre minuti e i vostri collegamenti (Facebook, Google, Instagram, e quant’altro) si riempiranno di offerte di corsi di cucina e inviti a vedere la nuova serie TV di “Cuochi d’artificio”.
Se prenotate un hotel a Stoccarda il vostro diario di Facebook e la vostra casella di posta traboccheranno di offerte di viaggio in tutto il mondo, con una certa preferenza (chissà perché?) per il Baden-Württemberg!
Se acquistate una bottiglia di Whisky su Amazon vi troverete per anni proposte di acquisto da tutte le distillerie dell’Orbe Terracqueo.
Il Grande Fratello sa già dove siete, cosa fate e con chi, e sa anche se lo fate bene o male, quindi è inutile lamentarsi del braccialetto di Amazon: tanto se lavorate lì dentro un po’ schiavi lo siete già, anzi, avete accettato di esserlo.
Il vero motivo per cui tale oggetto di costrizione non è moralmente accettabile, è invece ben altro: esso consiste nel fatto di essere ben più degradante della mera localizzazione del lavoratore a fini logistici. Esso presuppone che l’uomo non sia altro che un’appendice semovente di macchine; un’appendice di cui – per ora – non è ancora possibile fare a meno.
Meglio di ogni altra spiegazione ci illuminano le parole scritte dal capo del governo italiano in un telegramma al prefetto di Torino il 16 luglio 1937 (tratto dagli archivi di Duilio Susmel):
“Comunichi al Senatore Agnelli che nei nuovi stabilimenti FIAT devono esserci comodi e decorosi refettori per gli operai. Gli dica che il lavoratore che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista. Aggiunga che l’uomo non è una macchina adibita ad un’altra macchina.”