I migliori continuano ad andarsene


Possiamo anche cambiargli nome, ma la fuga dei cervelli c’è ed è dovuta all’overeducation e alla scarsa attenzione delle istituzioni verso la ricerca. Può certamente accadere che un ricercatore, in alcuni momenti del suo percorso professionale, ritenga opportuno lasciare il proprio paese per lavorare in una istituzione straniera nella quale abbia maggiori possibilità di ottenere risultati migliori. Questo fenomeno è presente in tutto il mondo. Invece, se l’emigrazione è dovuta al fatto che nel proprio paese i ricercatori non riescono a trovare un lavoro adatto alla propria qualificazione, che non hanno risorse adeguate per i propri progetti né possibilità di carriera, allora questi flussi migratori non sono più equilibrati ed il flusso in uscita supera, a volte anche di molto, quello in entrata. Questo fenomeno è stato riconosciuto nei primi anni ’60 dalla Royal Society inglese e definito “brain drain” (“drenaggio dei cervelli”); questo termine è poi stato tradotto in italiano come “fuga dei cervelli”. Se ora non si vuole più usare questo nome, considerandolo antiquato, e chiamare il fenomeno in qualsiasi altro modo, si può fare. Però, il fatto che esso continui ad esistere ed ad essere totalmente diverso dalla fisiologica mobilità dei ricercatori è indiscutibile e non si può eliminare cambiandogli nome. Purtroppo alcuni studi mostrano chiaramente che questo fenomeno è proprio quanto si verifica nel caso dell’Italia: anche se il numero dei ricercatori che lasciano il nostro Paese non è facile da determinare con esattezza. Inoltre, mentre i non molti ricercatori stranieri che vengono a lavorare in Italia tornano quasi sempre in patria dopo qualche tempo, gli scienziati italiani che vanno all’estero in grande maggioranza non tornano più.
Il concetto di overeducation (o “sottoccupazione” o brain waste) è stato introdotto da Freedman nel 1976 per indicare l’impiego in una attività che non richiede le competenze acquisite con il titolo di studio che si possiede. Una conseguenza della sottoccupazione è la “perdita di conoscenza”: se una persona in possesso di un alto livello di formazione non utilizza le sue competenze e non si tiene al corrente degli sviluppi della conoscenza nel proprio campo, inevitabilmente perde la propria qualificazione perché le sue competenze divengono obsolete. Dall’indagine condotta dall’ISFOL tra coloro che hanno conseguito un dottorato di ricerca in Italia e lavorano nel nostro Paese, è risultato che quasi la metà dei dottori intervistati non svolgevano attività di ricerca. Questi dati indicano chiaramente che, oltre ai ricercatori emigrati, esiste una percentuale consistente dei dottori di ricerca che non è impiegata in attività consone alla formazione acquisita. Ne consegue che, nella condizione presente, il sistema-Paese si trova quindi in una evidente condizione di overeducation. Il fenomeno della emigrazione permanente dei dottori di ricerca italiani è collegato a quello dell’alta percentuale di overeducation tra quanti tra loro restano in Italia (NDR: Cristina Brandi da repubblica).
Quale impatto ha sull’economia del nostro Paese questo drenaggio di capitale umano?
Vi possono essere ormai pochi dubbi sul fatto che l’università italiana produce dottori di ricerca con un’ottima formazione ma in numero nettamente superiore a quello richiesto dal sistema produttivo nazionale. Secondo i dati OCSE, l’Italia si colloca in una posizione medio-bassa nella classifica dei paesi più industrializzati sia per il rapporto tra spese per ricerca e sviluppo e PIL sia per numero di ricercatori su mille occupati. La disponibilità di posti di lavoro, le prospettive di carriera e gli stipendi dei ricercatori in Italia sono quindi molto minori di quelli negli altri paesi industrializzati. A coloro che hanno conseguito il dottorato si presentano perciò solo due possibili soluzioni: o quella di migrare verso nazioni per le quali la richiesta di personale di ricerca è superiore a quanto il proprio sistema accademico riesce a produrre (come nel caso degli Usa) o quella di accettare un lavoro in Patria che non richiede la qualifica che possiedono. Entrambe le possibilità rappresentano un danno per la società che spende per la formazione di questo personale altamente qualificato, senza poi utilizzarla per uno sviluppo economico basato sulla conoscenza. È quindi evidente che, nel caso italiano, è indispensabile ridurre l’incidenza dell’overeducation”.
Ma in che modo?
Le opzioni possibili sono solo due: o si interviene sul sistema produttivo per riconvertirlo verso produzioni a maggiore tasso di innovazione, o si riduce l’offerta formativa disponibile. La prima opzione porterebbe il Paese verso un’economia più moderna e stabile, meno esposta alla concorrenza insostenibile da parte di nazioni nelle quali il costo della vita, e quindi il costo del lavoro, è enormemente più basso di quello in Italia. La seconda soluzione porterebbe, o meglio già sta portando invece il Paese verso un crescente degrado culturale ed economico (vedi le ultime riforme della scuola incentrate tutte sul tecnicismo e manualità). Purtroppo, i continui tagli al personale ed alle risorse economiche delle università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, il calo degli iscritti all’università, l’abbandono da parte delle imprese italiane di molti dei settori tecnologicamente più avanzati nei quali erano riuscite ad ottenere significativi successi negli anni ’60 e ’70 e la scarsa attenzione per l’enorme patrimonio culturale del nostro Paese fanno temere che l’Italia stia scegliendo, inconsciamente (ma anche irresponsabilmente), la strada peggiore. I motivi che spingono alla fuga sono pochi e ben definiti. La mancanza di fondi e lo scontro con un sistema retrogrado governato dalla burocrazia e dal baronaggio. Esiste quindi una diabolica simbiosi che permette il protrarsi di uno stato di degrado, tra governo e tra un mondo accademico corrotto. In queste condizioni i giovani più capaci non trovano lo spazio che uno stato moderno dovrebbe offrire loro e prima o poi si trovano a decidere se rimanere e sopravvivere nel migliore dei modi, oppure cambiare paese. Gli anni in cui un ricercatore dovrebbe dare il meglio, diventano un calvario, passati più che a fare ricerca, a inseguire un ordinario nella speranza di ottenere un lavoro sottopagato, o una promozione.
Come risultato gli italiani all’estero sono tra gli stranieri più numerosi.
In USA, una presenza altrettanto massiccia e quella cinese e indiana, ma i cinesi e gli indiani messi insieme fanno circa 1/3 della popolazione mondiale. Vediamo come funzione invece il reclutamento in USA. Durante la fase di reclutamento, spesso non è il giovane ricercatore ad inseguire il professore di turno, ma piuttosto sono i vari dipartimenti delle più famose università a corteggiare e contendersi i giovani più promettenti. L’istituto vincente è quello che offre di più. Un po’ come succede nel calcio italiano in occasione dell’apertura del mercato.
Gli annunci dei posti di lavoro (da quelli di post-doc a quelli di full professor) sono disponibili su pagine web accessibili in tutto il mondo, oppure su riviste specializzate. Chiunque può fare domanda, indipendentemente dalla nazionalità. Le domande vengono valutate in base al curriculum (l’università di provenienza gioca un certo peso) alle pubblicazioni e alle lettere di raccomandazione (in genere 3). Tutte le domande vengono esaminate. Da li si prepara una “short-list” con 5-10 candidati, i quali vengono invitati (a spese del dipartimento) a fare un seminario (sulla ricerca svolta) e a parlare con i membri della commissione e con il preside della facoltà. L’enorme vantaggio della short-list con pochi candidati consente a coloro che fanno domanda e che secondo la commissione non hanno speranza di ottenere il posto, non sono costretti a viaggiare e a sottoporsi ad un esame, prima di sapere di non avere speranza (cosa che succede in Italia già a partire dai concorsi per le borse di dottorato). Il colloquio con i membri della commissione è in genere molto rilassato, nel senso che il candidato viene soprattutto messo a proprio agio.
Il candidato non è esattamente “sotto esame”, ma piuttosto si cerca di evidenziare i punti positivi del dipartimento che offre il lavoro. Si discutono anche importanti questioni, come per esempio quali sono i mezzi necessari che il candidato richiede per svolgere la propria ricerca.
Il motivo per cui il colloquio non è esattamente un esame è il fatto che il curriculum, le pubblicazioni e il seminario spiegano già cosa il candidato sa fare. E poi la commissione a decidere se è questo quello di cui il dipartimento ha bisogno. In questo la commissione ha praticamente carta bianca, nel senso che non ci sono regole scritte (per esempio punti assegnati per il numero di pubblicazioni, dottorato etc, come
avviene nelle università italiane) e tutto viene lasciato al buon senso dei membri della commissione.
Tutto funziona generalmente senza grossi incidenti per una serie di motivi. Ad esempio, i membri della commissione sono più di 3, in genere 5-10. Difficile far passare grosse scorrettezze se sono in tanti a dover approvare. Ma il motivo principale sta nel fatto che l’obiettivo è quello di assumere la persona scientificamente migliore e che sia in grado di integrare la propria ricerca con quella già svolta nel dipartimento. A parità di validità scientifica, si preferisce il ricercatore più giovane e/o donna.
Dopo che l’offerta viene fatta, il candidato vincente ha un po’ di tempo per decidere se accettare, tutto questo è accompagnato da una politica di finanziamento pubblico efficiente ma ancor più efficiente è il ruolo dell’impresa privata americana con i suoi fondi di investimento e comitati per la ricerca. Tralascerò le mie opinioni su come dovrebbe funzionare il sistema scolastico, solo lo Stato deve occuparsi dei figli e solo la cultura pubblica, scusatemi per il termine, può creare una società che si identifichi pienamente nella propria nazione, un sistema privato di finanziamento crea vantaggio solo a chi poi farà fruttare quella scoperta si pensi agli investimenti delle industrie farmaceutiche che speculano poi sulla pelle della povera gente a tal proposito citerò il caso emblematico dell’India che ha creato un suo medicinale antitumorale sfruttando ricercatori nazionali e una molecola di una nota casa farmaceutica con la differenza che il governo indiano vende a 250 dollari mentre la N….. lo vende per migliaia di dollari è un bellissimo esempio di scienza al servizio della propria gente e non del capitale.
Tornando a noi, l’unica soluzione possibile è quindi quella di una seria riconversione industriale e di un rilancio del sistema di ricerca italiano che deve essere portato ai livelli di finanziamenti e di risorse umane dei Paesi con i quali si vuole competere perché, proprio nella attuale situazione di crisi economica, sono solo gli investimenti nel settore della conoscenza che possono fare riprendere slancio all’economia del Paese. Finché questa condizione non sarà verificata, la “fuga dei cervelli” dall’Italia continuerà.
Visco l’ex n 1 di Bankitalia ha affermato nel 2013 durante l’annuale rapporto sul sistema Italia che: “L’Italia è un Paese anziano: occorre ricercare le ragioni, e rimuoverle, per le quali è così bassa l’occupazione tra giovani e donne“, ha concluso con una dovuta presa d’atto, e i ns governanti con l’aiuto del Vaticano stanno rimuovendo il problema giustamente con la sostituzione di popolo ma si badi non con uno più avanzato tecnologicamente e culturalmente ma con popoli sottosviluppati sicuramente uguali a noi ma ancor più vero diversi da noi.