L’eroe che ha salvato il mondo (ma nessuno lo sa)


La notizia è trapelata solo pochi giorni fa: l’uomo che ha salvato il mondo è morto.
Lo scorso 19 Maggio, dopo un peggioramento della sua salute già da tempo malferma, se n’è andato in silenzio così come è vissuto il 78enne tenente colonnello Stanislav Petrov.
Chi ha seguito alcune settimane or sono il programma Voyager avrà già sentito la storia che stiamo per raccontare. Gli altri scopriranno in queste righe che forse sono ancora in questa valle di lacrime grazie ad un uomo che facendo uso del proprio cervello a dispetto delle procedure dei burocrati ha salvato la Terra da un olocausto nucleare irrimediabile.
Era il 26 settembre 1983. Petrov era un analista che quella notte si trovò quasi casualmente a fare un turno di guardia ai calcolatori, sostituendo uno dei militari professionisti che sorvegliavano a distanza i silos americani nei quali sono custoditi i missili intercontinentali.
Venticinque giorni prima, il 1° settembre, un caccia sovietico aveva abbattuto un jumbo sudcoreano con 269 persone a bordo che era entrato nello spazio aereo dell’Urss.
Erano gli anni in cui la gerontocrazia sovietica stava morendo di burocrazia e di vecchiaia politica.
Juryìij Andropov, il segretario generale del PCUS era ricoverato per l’ennesima volta in ospedale e ne sarebbe uscito solo per essere sepolto nelle mura del Cremlino.
In quel 1° settembre, a controllare i radar non c’era Petrov, ma un militare disciplinato e fesso il quale riferì ai suoi superiori che un apparecchio aveva violato il territorio della Rodina. I generali, temendo ormi per defult che fosseun aereo spia americano, applicarono le regole. In pochi minuti un altro fesso, il maggiore Gennadij Osipovich che aveva affiancato il jet civile con il suo Sukhoi, ricevette l’ordine di abbattere l’intruso. Quando in seguito gli fu chiesto perché non aveva riferito a terra trattarsi di un aereo civile rispose: «Perché nessuno me lo aveva chiesto».
Neanche un mese dopo, invece, fu una fortuna per questo pianeta che al posto di controllo ci fosse Petrov, che casualmente era stato posto a sostituire un militare impossibilitato ad effettuare quel turno di notte.
Alle 00,15 del 26 settembre il sistema segnalò che era in corso un attacco da parte degli Stati Uniti con un lancio multiplo di vettori intercontinentali.
Un altro avrebbe semplicemente controllato i segnali in arrivo (cosa che lui fece) e si sarebbe limitato ad applicare il protocollo, informando i suoi superiori: «Missili americani in arrivo. Colpiranno il territorio dell’Unione Sovietica fra 25/30 minuti». L’analista reagì invece diversamente, con un sangue freddo incredibile e una conoscenza del sistema altrettanto sbalorditiva: non credette che gli Stati Uniti potessero veramente attaccare.
«E se pure l’avessero fatto, non avrebbero lanciato solo un grappolo di missili», disse un anno fa a chi lo andò a intervistare. Intuì che ci fosse un guasto nel sistema, nonostante il parere assolutamente opposto dei tecnici presenti, e non disse ai superiori che era in corso un vero attacco.
E fu così che salvò il mondo.
E’ importante ricordare che i tempi per rispondere ad un attacco nucleare sono risicatissimi. I missili impiegano meno di mezz’ora per raggiungere la Russia dagli Usa. Alcuni minuti servono per controllare che tutti i parametri siano giusti. Poi la comunicazione telefonica a Mosca: l’informazione arriva ai vertici. Si sveglia il capo supremo (oggi è Putin) che deve prendere la decisione in pochi secondi. I militari e i burocrati non sono abituati a discutere le procedure e in quei mesi la tensione tra le due superpotenze era alle stelle, con Andropov che era convinto della volontà degli USA di sferrare un attacco nucleare e con Reagan che chiamava l’Unione Sovietica “l’Impero del Male”
Se le procedure fossero state rispettate ci sarebbe stata una rappresaglia immediata, con decine di vettori intercontinentali diretti a Ovest. A quel punto, com’è logico, Washington si sarebbe sentita attaccata e avrebbe risposto con altri lanci multipli in un’escalation che avrebbe portato probabilmente alla distruzione del nostro pianeta!
Ma Petrov non era ottuso come gli altri militari. Come dice chi lo ha intervistato: “Al suo posto di controllo a Serpukhov-15, vicino Mosca, arrivò il segnale sempre atteso e tanto temuto: «Si accese una luce rossa, segno che un missile era partito. Tutti si girarono verso di me, aspettando un ordine. Io ero come paralizzato, dapprincipio. Ci mettemmo subito a controllare l’operatività del sistema, ventinove livelli in tutto», ci raccontò. Pochissimi minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra. «Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in corso lanci multipli dalla stessa base», racconta. «Una nostra comunicazione avrebbe dato ai vertici del paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato troppo tardi». Petrov era sicuro che la segnalazione fosse sbagliata, nonostante tutto. «Ero un analista, ero certo che si trattasse di un errore, me lo diceva la mia intuizione» Così comunicò che c’era stato un malfunzionamento del sistema. “I quindici minuti di attesa furono lunghissimi. E se eravamo noi a sbagliare? Ma nessun missile colpì l’Unione Sovietica»”.
In seguito si chiarì che il sistema era stato ingannato da riflessi di luce sulle nuvole. Non venne premiato, anzi, ricevette un richiamo per non aver seguito la procedura standard. Inoltre, se lui aveva ragione, qualcun altro aveva sbagliato a progettare il sistema, magari qualche alto papavero. Così tutto venne insabbiato e secretato.
La sua storia è rimasta segreta fino al crollo dell’Unione Sovietica. Ma anche dopo il tenente colonnello Petrov ha ricevuto qualche riconoscimento all’estero, ma nessuno in patria.
Quando si congedò non ricevette nemmeno la solita promozione a colonnello.
Quando un anno fa venne intervistato dal Corriere della Sera a Fryasino, in uno dei soliti brutti palazzi di cemento armato costruito in epoca sovietica, la cittadina dove viveva a una ventina di chilometri dalla capitale, la sua storia suscitò un vivo interesse e un gruppo di volontari, l’R 14 di Milano, decise di assegnargli un premio e un contributo economico che gli è stato utile negli ultimi mesi di vita.
Petrov era di poche parole e assai schivo. Soleva di re di aver semplicemente fatto il proprio lavoro, aggiungendo però immediatamente dopo: «Ero l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto».