Bolt Vs. Gatlin: storie di successi e doping


La sera del 5 agosto scorso, le luci dello stadio Olimpico di Londra, sede dei Campionati Mondiali di Atletica 2017, hanno illuminato il fulmineo tragitto degli ultimi 100 metri piani della oramai leggendaria carriera agonistica di Usain Bolt. Meno guascone del solito e più concentrato rispetto alle gare precedenti, Lightning Bolt ha tuttavia ceduto il suo scettro allo statunitense Justin Gatlin che, con i suoi 9”,92, si è piazzato sul gradino più alto del podio, precedendo il connazionale Christian Coleman che si è “fermato” al tempo di 9”,94.
Durante le batterie di qualificazione e sino a pochi secondi prima della partenza, il vincitore era stato ininterrottamente fischiato e contestato dal pubblico inglese presente sugli spalti a causa della sua recidività al doping (Gatlin è stato sospeso per un anno dopo essere stato trovato positivo alle anfetamine e, in seguito, nel 2006, per otto anni, poi ridotti a quattro, per positività al testosterone) e, subito dopo aver tagliato il traguardo, si è “vendicato” del trattamento ricevuto dai tifosi, invitandoli con imperio a zittire e a fare a meno di gratuite proteste, vista l’innegabile e limpida vittoria appena ottenuta.
La platea si è schierata però con lo sconfitto Bolt, davanti al quale l’americano si è simbolicamente inchinato, rendendogli onori degni di un eroe e festeggiandolo come se avesse vinto, ancora una volta, l’ambito oro.
Ebbene, aldilà comunque della naturale simpatia che Usain Bolt ha suscitato tra appassionati di atletica e non sin dalla sua prima apparizione ai blocchi di partenza, oltre l’omaggio meritevolmente tributabile a uno sportivo dalla carriera così ricca dei massimi allori, bisogna sottolineare che all’uscita di scena dell’amatissimo atleta giamaicano ha fatto da contraltare proprio la vittoria di chi in passato ha tradito il vero spirito dello sport e dell’agone e che ha anche scavato un solco molto profondo tra se stesso e il pubblico, per i noti poco edificanti episodi e per il modo in cui ha voluto prendersi la sua personale rivincita sugli spettatori nemici.
Per un antico atleta della terra delle Olimpiadi, per il suo allenatore e per il suo pubblico, precisiamolo sin da subito, la cosa più importante era vincere. Con la vittoria ci si avvicinava al divino e si completava l’opera di immedesimazione dello sportivo, appunto, con il dio e con gli eroi del mito, di per se stessi simboli di una dimensione umana fatta unicamente di qualità, di nobiltà d’animo e di ardore militare. Di contro, con la sconfitta, il soggetto perdeva dignità e cadeva nell’oblio. La vittoria, ottenuta esclusivamente con il sudore, la disciplina, lo strenuo allenamento e un solidissimo spirito di sacrificio, conferiva all’atleta l’aretè, la virtù, un insieme ben amalgamato di coraggio, nobiltà d’animo, capacità innata di primeggiare, rispetto per l’avversario, riverenza per la divinità. Possedere l’aretè, significava essere dei predestinati e rappresentava il traguardo di chi alimentava corpo e anima con l’ostico allenamento agonistico come anche di chi si impegnava per emergere al di fuori dell’ambito sportivo, poiché i percorsi formativi dei Greci del tempo erano caratterizzati dalla presenza di un forte spirito di competizione che doveva rendere l’uomo prode e vittorioso guerriero anche nella vita di tutti i giorni.
I giochi di Olimpia e quelli nemei, quadriennali, quelli istmici e pitici, che si svolgevano invece con cadenza biennale, ma anche le Panatenee, che si tenevano annualmente rappresentavano il momento in cui il duro lavorio fisico si trasformava in nobile e leale combattimento, in simbiosi con il pubblico accorso per rendere omaggio alla divinità in onore della quale veniva istituita la festosa occasione e, di conseguenza, agli atleti vittoriosi, esempio di eroismo e superiorità in pista e nella vita.
Dunque, il virtuoso Usain Bolt esempio di eccellenza e lealtà, kalòs kai agathòs, bello e buono, contro le scorciatoie disoneste e oltraggiose del cattivo Justin Gatlin, ancor più condannabile perché in aperta rottura con gli spettatori?
Sebastian Coe, attuale presidente della Iaaf e in passato vincitore per due volte del titolo olimpico sulla distanza dei 1.500 metri (nel 1980 a Mosca e nel 1984 a Los Angeles), ha definito i fischi allo statunitense “un avviso ai giovani che vogliono barare”. Ancora una volta, quindi, un richiamo a seguire la retta via, non soltanto in una palestra o su una pista di atletica anche se, nella fattispecie, è lecito chiedersi come mai sia stato comunque concesso a chi ha clamorosamente tradito più di una volta lo spirito del puro sport di incarnarne il nobile senso della vittoria.