L’ospitalità tradita


Viaggiare significa imparare e crescere, arricchire conoscenze e confermare o mutare pregresse convinzioni, espandere i confini della propria forma mentis, adeguandoli alla novità dei posti e delle situazioni, plasmandone ed estendendone  i contorni  secondo i contenuti acquisiti,  come  i lembi di un lenzuolo, stesi  fino a farli aderire perfettamente al materasso. Viaggiare vuol dire indagare sui perché della storia di un popolo e della geografia di un territorio tramite un educato interrogatorio e una serena  disamina delle prove, il cui risultato deve essere raggiunto nell’assoluto rispetto della controparte che ci onora del dono prezioso dell’ospitalità.
In questa prima parte dell’estate, al contrario, pare decisamente che tatto e considerazione non rientrino nel bagaglio (è proprio il caso di adoperare tale termine) che la specie del turista si è trascinato dietro e che si è rivelato invece colmo di volgarità e ostentata maleducazione come testimoniato da eclatanti episodi di follia da ferie estive.
A Venezia, un gruppetto di turisti belgi con l’evidente convinzione di trovarsi in una piscina pubblica, si è tuffato dal ponte di Calatrava, emulato da un argentino che ha scelto, come trampolino, il più celebre e romantico ponte di Rialto; in Sardegna, sulla spiaggia del Sulcis, le veementi proteste di un abitante del posto hanno rivelato ai bagnanti tutti la “pratica” idea di una viaggiatrice nostrana, che ha riversato in mare i residui di una scatoletta di tonno prima di nasconderla nella sabbia; a Jesolo una coppia ha pensato bene di trasformare un lettino in riva al mare in una sorta di alcova a cielo aperto (questa del sesso, per così dire, al aire libre, pare esser diventata una deprecabile, quasi inquietante abitudine non solo del popolo di visitatori e vacanzieri); città d’arte sono state ridotte a bivacchi e dormitori sotto il sole; monumenti dalla storia secolare sono puntualmente stati scambiati per arredi di infimo ordine, piscine o bagni pubblici. Questo il malinconico elenco delle ultime news in materia di “bon ton” turistico.
Nella Grecia arcaica, l’ospite (xénos) era sacro poiché inviato all’ospitante dagli dei e da essi, in particolar modo da Zeus Xenio, protetto. Al viandante ospite veniva riservato massimo riguardo ed erano dovute le cure più attente: cibo per rifocillarsi, acqua per lavarsi, vesti per coprirsi, un letto per riprendersi dalla fatica del tragitto, la discrezione di chi forniva ospitalità che si limitava a poche, essenziali domande al nuovo arrivato e solo dopo avergli fornito tutte le attenzioni di rito e, nei casi di ospitanti particolarmente ragguardevoli, ricchi banchetti e giochi in onore del nuovo arrivato. A costui veniva altresì riservata ulteriore considerazione in virtù del ruolo di tramite con l’esterno che egli ricopriva, in quanto portatore di notizie da contrade vicine e lontane. Infine, al momento del commiato, al viaggiatore in partenza veniva riservato un regalo da parte del padrone di casa che egli non poteva far altro che accettare.
Non lasciamoci però ingannare dall’apparente unilateralità e gratuità che sembrano caratterizzare questo tipo di rapporti, perché trattare l’ospite con i guanti di velluto, onorarlo con un dono e lasciarlo tra i propri possedimenti tutto il tempo a lui necessario per ritemprarsi, rappresentavano l’inizio di un contratto di reciproca assistenza che obbligava l’ospite a ricambiare, in caso di bisogno, il trattamento ricevuto. Pertanto, essere oggetto di coccole da spa e venir trattato quasi come un membro della famiglia da gente pressoché sconosciuta, a volte anche per un periodo di tempo considerevolmente prolungato, voleva dire impegnarsi a rispettare non solo chi elargiva tali privilegi, ma tutto il suo mondo, del quale l’ospitato faceva ormai parte, e la sua terra che lo aveva alimentato e che era divenuta un po’ anche dello straniero. Nasceva così un vincolo che teneva unite le due controparti per la vita e che conferiva a tale concetto di accoglienza netti tratti politici.
Il rispetto per chi ospitava generava, quindi, il rispetto per chi era ospitato e viceversa, in un rapporto di reciprocità che metteva chi chiedeva e chi dava sullo stesso piano poiché si era consapevoli dell’interscambiabilità dei due ruoli. Il tutto accadeva in maniera e con prospettive costruttive per la persona e le sue sorti, anche materiali ed economiche.
Il senso di riverenza per le persone e i luoghi che ci danno ospitalità, per le abitudini o i costumi che ne rappresentano la storia, per le testimonianze che le terre, le città, i paesi altrui conservano come tesori inestimabili, così come quelli che venivano serbati nelle terre e nelle case degli antichi ospitanti, anche per essere donati all’ospite degno, sono il senso di riverenza che nutriamo per noi stessi e per il nostro paese e non esistono civiltà né cultura se li offendiamo per egoismo e ignoranza. Chi ritiene di comportarsi in casa altrui, nel più lontano anfratto dell’emisfero australe o nel paesello confinante col proprio come se non avesse percorso distanza alcuna, con la presunzione o, peggio ancora, la convinzione che tutto gli sia permesso anche contro ciò che impongono le leggi, le usanze degli ospitanti o il buon senso, dispregiando la cura che chi ama il proprio paese manifesta col lavoro e l’impegno quotidiano, oltraggiando la naturalità dei luoghi, noncurante di chi ha contribuito a far crescere il territorio che lo accoglie, resta semplicemente un barbaro.