E il greco fa ancora paura


(In foto: Deimos e Fobos – Aias Kassandra Louvre G458)

Alla maggior parte dei tredicenni e quattordicenni che si accingono a varcare per la prima volta la soglia della scuola media superiore, gli studi classici, strapazzati da tristia tempora che spingono pueri e puellae a cercare la futura realizzazione professionale in ambito tecnico e scientifico, appaiono inutili e vetusti. Pochissimi genitori, forse ancora un discreto numero di nonni e qualche zio si perdono debolmente in lai da provette Cassandre, tipo: “Ti pentirai di aver scelto lo scientifico (o il tecnico e così via..)”, oppure “Ma come, tu, così bravo, non scegli il liceo classico?!”.
Orbene appurato che, da sempre, anche il mitico liceo classico è stata meta scolastica di emeriti somari, nonché sfaticati incalliti e senza voglia, dalla viva voce dei diretti interessati, si apprende che il motivo primario per il quale esso rappresenta ancora una sorta di seppur sbiadito spauracchio, ha un nome ben preciso: Greco, anzi IL GRECO.
Ancora oggi, basta il solo suono gutturale di tale termine a spaventare ed atterrire i nostri baldi e graziosi giovani (magari genietti informatici nemmeno troppo in nuce), manco gravasse sugli stessi la minaccia del leviatano, spingendoli verso altri itinerari di studio e lasciando i corridoi di molti istituzioni scolastiche in cui ancora si traducono Erodoto e Tucidide e in cui ancora si coniuga l’aoristo debole, forte e fortissimo, sempre più desolatamente vuoti.
Eppure, lasciando da parte nozioni tecniche e specifiche, le pagine di una grammatica greca racchiudono i segreti di una lingua matematicamente limpida, rigorosa e perciò semplice da imparare, affascinante perché in grado di renderci chiari molti perché della nostra lingua italiana e della terminologia scientifica e tecnica, di favorire un allenamento mentale che potrà essere applicato, nella vita, a qualunque ambito di attività. Lo studio di tale disciplina è una scoperta continua ed intrigante, dall’alfabeto alla fonetica, dalla classificazione delle consonanti all’apofonia, dalle leggi dell’accento allo studio della flessione del sostantivo e dell’aggettivo, con la novità del genere “duale”, con le prime letture, trascrizioni e traduzioni di termini, una piccolissima sfida con noi stessi che, se vinta, ci darà la certezza di poterci addentrare nell’approfondimento di qualsiasi lingua straniera. Poi si passa allo studio del verbo e allora si scoprono le raffinatezze del tempo, si comprende che non esistono una sola sfumatura di presente e di futuro, che il passato non è stato solo passato puntuale e sempre uguale ma che anche esso è suddiviso in una serie di momenti temporali con una diversa valenza che si chiamano (un po’ di pedanteria) aoristo, ovvero il passato remoto, perfetto, id est il passato prossimo ma anche (per un numero limitato di verbi), il presente e piuccheperfetto, ossia il trapassato prossimo. Essi fluttuano con una flessibilità diversa anche dai modi e dai tempi del verbo latino e sono più riconoscibili, poiché, da tempi storici, hanno un aumento o un raddoppiamento, una sillaba in più o di diversa quantità rispetto al modo indicativo del tempo presente (sic! Il modo è subordinato al tempo e non viceversa, come nella ns. sintassi verbale). Nello studio dell’analisi del periodo, ci ritroviamo forse un po’ di più ma riusciamo a capire, anche in questo frangente, che la conseguenza è rigorosamente insita nella premessa, che l’eventualità non è uguale alla possibilità, che il periodare è il risultato di una lineare equazione.
Per questo, tradurre dal greco antico rappresenta:
– un vero e proprio sistema di ragionamento acquisibile con facilità, se si parte, con serenità dalle basi della lingua, dallo studio dell’alfabeto, dalle lettere e da quell’alfa che, non a caso, viene presa da sempre come simbolo di inizio, di nascita, di luce;
– un modo per rafforzare le nostre conoscenze della lingua e della sintassi italiane attraverso una operazione di confronto;
– un percorso di indagine, alla ricerca delle radici di molti dei valori della nostra civiltà occidentale;
– la maniera per dare concretezza e forma tangibile ai grandi nomi della letteratura, dell’arte e della filosofia ellenistiche;
– un trait d’union tra formazione classica e scientifica.
Leggere i versi di Omero, piuttosto che i dialoghi platonici o le puntuali analisi sociali di Polibio nella lingua in cui tali opere sono stati concepite e sviluppate, vuol dire aprirsi ad un mondo vivo, pieno dei nostri stessi fermenti, mai in stand by, per comprendere il quale, come per lo studio di qualunque civiltà, del presente come del passato, bisogna necessariamente studiarne lo strumento di espressione verbale.
Magari, decisamente controcorrente rispetto all’effimero e al momentaneo che vanno sempre più di moda, sarebbe il caso che diventasse cool e popolare, nel pubblico più giovane, lo studio di una disciplina così immensamente solida, educativa e ricca di richiami verso la nostra attualità sociale e politica, che può insegnare ancora e sempre tanto ad una platea un pochino distratta.